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Il miele nella guarigione delle ferite

Prodotti delle api

frecciatornaindietroLa risposta a un’emergenza
A partire dal Papiro Edwin Smith (detto il “papiro chirurgico”, un testo databile al 1600 avanti Cristo che presenta una summa della medicina razionale dell’epoca, senza nessuna concessione ad aspetti magici o rituali) si intravede tutta una tradizione di medicina pratica che percorre i secoli e pervade ogni territorio del pianeta, e sembra interrompersi in un momento preciso: gli anni ’40 del secolo scorso, quando la scoperta degli antibiotici origina una speranza che porta, negli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70,  alla presunzione di aver sconfitto una volta per tutte le malattie infettive. Questo riferimento storico serve a render conto del perché di questo rinnovato interesse per l’uso terapeutico del miele, un interesse che è indipendente dall’ ondata di riscoperta di cibi e prodotti naturali, ma che nasce da un’emergenza pratica: il rapido sviluppo di resistenza agli antibiotici sviluppata dai microorganismi. Fin dal 1947,dopo soli pochi anni di popolarità della penicillina (il primo antibiotico), si cominciò a manifestare resistenza da parte dello Staphilococcus aureus, un batterio che può causare tra l’altro ascessi, infezioni di ferite, impetigine, infezioni del tratto urinario, polmoniti, e che è tra quei batteri che provocano infezioni in ambiente ospedaliero e soprattutto nell’ambito delle ferite.  Affrontato successivamente con sempre nuovi tipi di antibiotici, è continuato a evolvere più velocemente di quanto la comunità medica riuscisse a “inseguirlo”, così come tanti altri batteri.  L’uso generalizzato degli antibiotici ben oltre le situazioni di reale bisogno ha infatti eliminato i batteri più sensibili e messo i più forti nelle condizioni di riesumare i geni che erano evoluti in un lontano passato nella darwiniana lotta per la “sopravvivenza del più adatto”.

Il perossido di idrogeno, primo fattore antibatterico individuato
L’ aspetto antimicrobico del miele è forse quello più studiato. La constatazione empirica dei benefici del miele è antichissima, ma senza ovviamente la consapevolezza che di attività antibatterica si trattasse né a maggior ragione dei suoi meccanismi di funzionamento.  E’ alla fine dell’’800 che il potere del miele si disvela come antibatterico, e agli inizi del ‘900 ci si comincia ad avvicinare all’identificazione di uno dei meccanismi di funzionamento: l’ancora misterioso fattore viene definito “inibina” (parola che si ritrova su molti testi non recenti, ma ancora in circolazione, sul miele). Questo fattore dipende da un enzima aggiunto dalle api al nettare, con la funzione di proteggerlo dalla proliferazione batterica nel periodo della sua trasformazione in miele. Si tratta della glucosio ossidasi, che rimane “dormiente” nel miele tal quale, ma che rimessa in condizioni di minore concentrazione zuccherina, forma acido gluconico e piccole quantità di perossido di idrogeno (familiarmente chiamato acqua ossigenata), un disinfettante che in concentrazione alta può danneggiare i frecciatornasutessuti, ma alla concentrazione in cui viene prodotta nelle condizioni di utilizzo (1/1000 della concentrazione al 3% che compriamo in farmacia) ha un effetto terapeutico senza effetti collaterali negativi.  Uno studio australiano pubblicato su Frontiers of Microbiology  mostra però come i livelli di perossido di idrogeno in un miele non siano attendibili di per sé per aspettarsi una autentica attività antibatterica all’atto pratico, e anche che la filtratura e il riscaldamento, in genere, riducono l’attività di perossido di idrogeno, ma che questo varia da campione a campione. I mieli più attivi producono alti livelli di perossido di idrogeno sia prima che dopo il riscaldamento, suggerendo che la stabilità del perossido di idrogeno può essere un buon indicatore di attività antimicrobica. Il problema della stabilità è rilevante nel momento che, in ambito clinico, quando si parla di miele non si sta parlando di miele del negozio, ma di miele che deve aver raggiunto la “qualità medica”. Questo avviene (oltre che con un protocollo rigoroso dall’apiario all’estrazione), attraverso processi di filtratura (poiché l’incorporazione in una ferita di particelle non biodegradabili può dare origine a un granuloma), esposizione a raggi gamma (per evitare che spore non neutralizzate dall’attività antibatterica del miele stesso germinino in presenza di una diluizione), riscaldamento (per facilitare la filtratura). In tutti i casi nuovi controlli sul miele dopo i procedimenti per renderlo “di qualità medicinale” sono ormai parte del protocollo. 

Ma i fattori antibatterici sono più d’uno
Ma  al perossido di idrogeno si affiancano, nel determinare le proprietà antimicrobiche del miele, anche altri fattori. Nel 1982 il professor Peter Molan, dell’Università di Waikato, in Nuova Zelanda, scoprì che nel miele di manuka (il Leptospermum scoparium, una mirtacea affine all’albero del the che vanta numerose varietà, diffusa in quel paese e abbondantemente visitata dalle api) era presente un principio antibatterico non sensibile alla luce e al calore. Per evidenziarne la presenza i ricercatori aggiungono un enzima chiamato catalasi, che elimina la produzione di perossido di idrogeno nel miele. Una volta neutralizzato il perossido di idrogeno, il miele di manuka continua ad esercitare una forte attività antibatterica. Nel 2007 uno scienziato tedesco dell’Università di Dresda, Thomas Henle,  ha svelato il mistero, attribuendo a un composto specifico, il metilgliossale, l’azione battericida. Eppure il mistero non è completamente risolto in quanto, come per il perossido di idrogeno, anche per il metilgliossale i livelli reperibili nel miele non sono direttamente correlati all’attività antibatterica reale, il che fa presupporre qualche forma di sinergia. frecciatornasuQuesta peculiare proprietà battericida è stata denominata UMF (Unique Manuka Factor) e viene indicata con un valore, specifico per ogni campione di miele di manuka, che indica la percentuale di fenolo in soluzione che abbia lo stesso potere battericida. Questo vuol dire per esempio che un miele di manuka UMF 10 ha un potere battericida pari ad una soluzione al 12% di fenolo. Sembra che il miele di manuka con UMF più alto sia quello raccolto nelle regioni di Waikato e NorthIand, nella parte più settentrionale della Nuova Zelanda, dove crescono prevalentemente le varietà  Leptospermum scoparium var. incanum e var. linifolium. E’ interessante notare come l’UMF non è da mettere in relazione con l’olio essenziale di manuka: infatti le aree che forniscono miele con UMF più alto non sono quelle in cui l’olio essenziale di manuka ha proprietà maggiormente antibatteriche.
Ci sono altri meccanismi antibatterici ascrivibili al miele: uno è la sua capacità igroscopica, quella cioè di assorbire umidità succhiando dai batteri  l’acqua e la vita ed eliminando quindi anche quei batteri  che hanno sviluppato resistenza agli antibiotici. A impedire la proliferazione batterica può essere anche l’alta acidità del miele (che ha un pH che varia da 3.2 a 4.5 a seconda della sorgente botanica).  Ma in azione non ci sono semplicemente  zuccheri,  tant’ è che per ottenere lo stesso effetto  del miele con una miscela artificiale di zuccheri ce ne vuole una quantità da 5 a 10 volte maggiore.
Queste componenti sono importanti nel momento in cui la catalasi, che abbiamo nominato sopra come soppressore del perossido di idrogeno, è presente, oltre che in certi mieli (che hanno perciò un basso livello di perossido di idrogeno), anche nelle cellule del corpo umano, e quindi è importante che il miele possa contenere un principio antibatterico indipendente dal perossido di idrogeno nel momento in cui l’essudato delle ferite diluisce e diminuisce il potere dell’acidità e dell’alto contenuto zuccherino.

E’ possibile una resistenza dei batteri al miele?
Sorge spontanea la domanda se anche al miele si possa opporre col tempo una resistenza da parte dei batteri, dal momento che, con poche eccezioni, l’introduzione di ogni nuovo antimicrobico nella pratica clinica ha avuto questo esito. Sono stati fatti esperimenti usando dosi subletali di miele di manuka, per vedere se era possibile selezionare ceppi  batterici mutanti, resistenti al miele.  Ma i risultati sono stati negativi, mentre esperimenti simili per isolare ceppi batterici resistenti hanno dato esiti positivi. A differenza degli antibiotici, il miele di manuka colpisce una molteplicità di  obiettivi e anche se la possibilità di resistenza non può essere esclusa, risulta improbabile. Inoltre l’uso del miele per le ferite ha una storia millenaria, senza che siano mai stati segnalati casi di resistenza, mentre  nel caso degli antibiotici queste segnalazioni sono cominciate non appena sono stati di uso comune.frecciatornasuIn letteratura medica, esistono ricerche sulla sensibilità di oltre 50 batteri a una grande varietà di mieli. Fin dal 1979 uno studio del tedesco Dustmann metteva a confronto alcuni mieli mitteleuropei  trovando delle enormi differenze in termini di attività del perossido di idrogeno.

Altre proprietà del miele aiutano la guarigione delle ferite
Le proprietà antibatteriche non sono l’unico fattore che rende il miele adatto al trattamento delle ferite. Molto è dovuto alle sue proprietà fisiche. Con la sua viscosità, costituisce una barriera protettiva che previene le infezioni incrociate (malati che negli stessi locali ospedalieri si trasmettono reciprocamente batteri). La sua azione osmotica attira liquidi dai tessuti creando un ambiente curativo idratato (osmosi è il processo per cui, se due soluzioni a differente concentrazione sono separate da una membrana semipermeabile, che permetta il passaggio della sola acqua senza il soluto, l’acqua tende a passare dalla soluzione più diluita a quella più concentrata fino a raggiungere un equilibrio). L’idratazione evita così un disseccamento che ritarderebbe il chiudersi delle ferite. Si evita così anche che la medicazione aderisca alla ferita e che i tessuti, crescendo a stretto contatto con la garza, ne rendano dolorosa l’asportazione. Il flusso osmotico estrae anche le sostanze nocive dalla ferita. Il contenuto zuccherino del miele aiuta a eliminare i cattivi odori che spesso si notano provenire dalle ferite, poiché i batteri usano glucosio preferendolo agli aminoacidi, producendo perciò acido lattico anziché sostanze maleodoranti. Il miele stimola anche una naturale rimozione di cellule morte, evitando che questa rimozione avvenga chirurgicamente, in modo doloroso. L’acidità del miele accelera la guarigione e gli antiossidanti in esso contenuti neutralizzano i radicali liberi (molecole che danneggiano componenti importanti del tessuto della ferita). Il miele ha anche un’attività antiinfiammatoria, mitigando gli eccessi di quella reazione infiammatoria che di per sé inizia il processo di guarigione, ma che rischia di creare un circolo vizioso. Coi suoi zuccheri nutre i macrofagi, i più importanti mediatori del processo di guarigione.
L’ambito delle ferite ci fornisce dunque  un incredibile spaccato per conoscere in azione le caratteristiche del nostro prodotto.

Per approfondirefrecciatornasu
L’informazione sull’uso del miele nelle ferite è soprattutto in lingua inglese. Se si vuole un buon libro a livello di studi clinici, suggerirei “Honey in Modern Wound Management” di vari autori tra cui quello che è forse il principale esperto mondiale, Peter Molan (il libro è distribuito da Bees for Development). Se si vuole invece un’esposizione lodevolmente semplice e accessibile a tutti, senza nulla perdere quanto a riferimenti scientifici, consiglierei “Two Million Blossoms” dell’americana Kirsten Traynor (Image Design Publishing), che spiega in forma divulgativa anche vocaboli che in genere si usano dando per scontato che uno debba saperne il significato (come “radicali liberi”). Molti studi sono accessibili liberamente in internet, in particolare sul sito della Waikato University, Nuova Zelanda, molti altri sono accessibili, ma a pagamento.frecciatornaindietro

 (Paolo Faccioli)