La funzione del veleno d’ape
Il veleno d’ape è prodotto da specifiche ghiandole delle api di sesso femminile, collegate a una sacca contenitrice e a un pungiglione: le api operaie ne sono dotate per difendere l’alveare, attaccando eventuali aggressori. La regina invece, per uccidere le rivali: ogni alveare può avere infatti una sola regina, e quando nascono più regine nello stesso momento, si ha o una fuga di qualcuna di queste regine con l’ accompagnamento di un certo numero di api, o l’eliminazione, da parte di una regina nata, delle regine non ancora nate e ancora racchiuse nella loro cella, oppure una lotta mortale tra due regine. Le regine usano il loro pungiglione esclusivamente con le rivali. I fuchi invece non hanno pungiglione. Le api operaie molto giovani (nella prima settimana di vita) non hanno né il veleno, né l’istinto di pungere. Il massimo sviluppo si ha tra la terza e la quarta settimana di vita dell’ape, quando essa si predispone alla funzione di guardiana, proprio in coincidenza con lo sviluppo di quelle ghiandole. Quando un’ape punge un essere umano o un mammifero in generale, il pungiglione, che è dotato di piccoli uncini, rimane conficcato nella pelle e l’ape muore, perché nel tentativo di staccarsi si strappa gli intestini. Invece è in grado di estrarre il pungiglione e di rimanere viva dopo avere punto altri insetti. Il contenuto di una sacca di veleno viene in genere espulso completamente in due minuti. Il veleno d’ape è anche portatore di un messaggio feromonale di allarme, che attiva altre api nella difesa dell’alveare. Nell’uomo il veleno d’ape può provocare reazioni che vanno dal dolore localizzato, seguito da una sensazione di calore e di prurito, fino a delle vere e proprie reazioni allergiche e allo shock anafilattico, uno stato di ipersensibilità che può approdare a una reazione violenta, in rarissimi casi con esiti mortali. Nonostante il veleno d’ape venga comunemente associato soprattutto a questo aspetto, esso costituisce uno dei più preziosi doni dell’alveare: contiene infatti una molteplicità di sostanze ad elevata attività farmacologica e biochimica che possono essere usate efficacemente per una grande varietà di malattie, dopo aver verificato che chi intenda utilizzarlo non sia soggetto ad allergia.
Storia dell’uso terapeutico del veleno d’ape
Secondo il ricercatore egiziano Ahmed Hegazi, su uno dei primi rotoli di papiri egiziani risalente al 2000 prima di Cristo, sarebbe già menzionato l’uso terapeutico del veleno d’api tramite strofinamento sulle parti dolenti. Il veleno d’ape sarebbe stato conosciuto sotto questo aspetto anche in altre antiche civiltà, Babilonia, Assiria e Nibia. Il greco Ippocrate, considerato il “Padre della Medicina” e vissuto tra il 460 e il 410 prima di Cristo, l’avrebbe utilizzato per guarire artrite e altri problemi alle articolazioni e infiammatori definendolo “medicina strana e misteriosa”. Ne parlano anche il romano Plinio il Vecchio (23-79 dopo Cristo) nella sua Naturalis Historia, e il greco Galeno (129-216). Carlo Magno sarebbe stato guarito dalla gotta usando il veleno d’api. Fu probabilmente J. Langer, dell’Università di Praga, a provare per primo, nel 1897-99, a estrarre il veleno senza ammazzare l’ape, provocando l’estroflessione del pungiglione e raccogliendo il veleno in gocce all’interno di tubi capillari. L’apiterapia vera e propria nasce in Austria, a cavallo tra l’’800 e il ‘900, col dottor Philip Terc, che lo utilizzò in 25 anni di pratica su pazienti reumatici. La ditta Mack, nel sud della Germania, iniziò nel 1930 la preparazione commerciale del veleno. Le operaie prelevavano le api una ad una davanti all’ingresso dell’alveare e con una lieve pressione le inducevano a infilare il pungiglione in una stoffa assorbente. Qualche anno dopo venne introdotto un metodo meno laborioso, utilizzando una leggera scossa elettrica per indurre le api a infilare il pungiglione, un metodo che venne perfezionato nel 1960 in Cecoslovacchia, dove il materiale utilizzato permetteva alle api di sfilare il pungiglione lasciando il veleno. Questo è il metodo usato oggi. Pioniere della terapia col veleno d’api fu il medico ungherese naturalizzato americano Bodog Beck, autore di un testo classico dell’apiterapia, pubblicato nel 1930: “Terapia col veleno d’api”. Le sue tracce vennero seguite dall’apicoltore americano Charles Mraz, in oltre sessant’anni di pratica dal medico. Dall’inizio degli anni ’50 anche il dottor Joseph Broadman, di New York, praticò l’apiterapia per la cura di artriti e racchiuse la sua esperienza nel libro “Bee Venom, the natural curative for arthritis and rheumatism”, pubblicato nel 1962. Oltre che in America, la terapia col veleno d’api ha avuto importanti sviluppi in Russia e nei paesi dell’est europeo, Cina, Giappone, Corea, Canada, Francia, Germania, Svizzera e Austria.
Cosa contiene il veleno d’ape
Alla composizione del veleno d’ape partecipano 78 diverse componenti, di cui solo 6 o 7 sono componenti maggiori. La rincipale è la Melittina, un peptide, che ne costituisce il 40-50%. Ha proprietà stimolanti sul cuore, abbassa la pressione sanguigna, permeabilizza i tessuti, è un potente antiinfiammatorio, inibitore del sistema nervoso centrale, radioprotettivo, antibatterico e antifungino.
L’Apamina (2%) è un antiinfiammatorio, neurotossico e stimolante del sistema nervoso, migliora la conduttività elettrica delle guaine nervose anche se degenerate. E’ un componente importante per la cura della sclerosi multipla.
Il Peptide 401 (2-3%), altro antiinfiammatorio, sembrerebbe agire sull’ipofisi scatenando la produzione di ACTH e quindi di cortisolo, rivestendo anche importanza per il sistema immunitario.
L’Adolapina (1%) ha un’attività antipiretica e analgesica.
L’Istamina (1%) ha un’attività vasodilatatrice. E’ all’origine delle sensazioni dolorose e infiammatorie del veleno.
La Fosflolipasi (12%) e la la Ialuronidasi (4%) detossificano le cellule, permeabilizzando i tessuti (importante perciò in affezioni reumatiche), la Fosfolipasi provoca inoltre una riduzione della pressione sanguigna ed inibisce la coagulazione del sangue, la Ialuronidasi è immunostimolante..
La Dopamina agevola la funzione di neurotrasmissione e provoca l‘aumento della frequenza cardiaca.
I campi d’azione del veleno d’ape
Neurologico (per Sclerosi multipla, Lombosciatalgia, Paralisi di Bell, Analgesia, Nevralgia, Dolori cronici, Nevralgia post-erpetica, Sindrome del Tunnel carpale)
Reumatologico (per Reumatismi, artriti e Artrosi, borsiti, Mialgie, Spondilite deformante, Poliartrite Deformante, Artrite psoriasica, Gotta, Gomito del tennista, morbo di Schermann, Fibromialgia, Tendinite, Contrazione di Dupytrèn, Traumi)
Polmonare (per Asma, Malattie ostruttive polmonari, Enfisema)
Immunologico ( per Scleroderma, Lupus Erytematosa, Endoarteritis Obliterans)
Infettivologico (per Herpes Zoster, Meningite Virale, Sindrome della Stanchezza Cronica, AIDS, Verruche)
Dermatologico (per Eczema, Tumori della pelle, Tumori vascolari della pelle, Alopecia, Dermatiti seborroiche, Micosi, Calli)
Cardiovascolare: (per Ipertensione, Ipotensione, Aterosclerosi, Aritmia, Endoarterite)
Oftalmologico (Glaucoma, Maculopatie)
Veterinario (Artriti, Infezioni)
Inoltre per ferite, lesioni, cicatrici, come preventivo per raffreddori e influenze, per sindrome premestruale, per crampi mestruali, per aumentare il numero di spermatozoi, per aumentare la fertilità, per melanoma e cancro al cervello.
Una reazione normale alla puntura di un’ape può comportare gonfiore e arrossamento locale, a volte orticaria o una leggera nausea. Spesso in questi casi l’estrazione del pungiglione è sufficiente. A questo proposito occorre sfatare la fondatezza di una convenzionale raccomandazione, secondo cui afferrando il pungiglione tra le dita per estrarlo si schiaccerebbe il sacco del veleno iniettandone di più, e il pungiglione andrebbe piuttosto raschiato via con la punta di un coltello o una carta di credito. In realtà l’apparato del veleno funziona come una valvola a pistone (simile alle vecchie pompe dell’acqua) che continua a iniettare il veleno indipendentemente dal fatto che il sacco sia toccato o no. Vale quindi la pena dare la precedenza alla velocità dell’estrazione, piuttosto che a un metodo particolare.
Se questi sintomi sembrassero comunque forti, è opportuno bere, raffreddare la parte, rimanere sdraiati, ed eventualmente assumere antistaminici o cortisonici, soprattutto se alla puntura seguisse una crisi di asma o di tosse.
Nei casi peggiori (gonfiore laringeo, alterazione della voce), si ricorre all’adrenalina preparandosi a un ricovero urgente.
In casi di allergia, può essere iniziata una terapia di desensibilizzazione (la cui durata può essere di alcuni anni), il cui meccanismo è di aumentare il tasso di anticorpi protettivi assumendo quantità di veleno con un graduale aumento, proprio come accade agli apicoltori.
La terapia iniettiva col veleno d’ape, a meno che non si sia già stati punti numerose volte senza avere avuto importanti conseguenze (per verificare che non vi sia un accumulo dell’effetto allergico), va preceduta da una prova per escludere di essere allergici, rigorosamente sotto controllo medico. Esistono comunque formulazioni del veleno d’api (creme, prodotti omeopatici) compatibili anche con persone allergiche.
Il dottor Theodore Cherbuliez, un esponente di punta dell’Apiterapia, ricorda comunque come in sette anni abbia avuto solo una media di un solo caso di incidente anafilattico ogni 875.000 sessioni di puntura su un totale di 60.000 individui. Solo lo 0,7% della popolazione sarebbe suscettibile di allergia grave.
In generale, la terapia col veleno d’ape può essere sconsigliabile a chi soffra di insufficienza cardiaca, pericardite, miocardite, angina pectoris, aneurisma dell’aorta, insufficienza renale o polmonare, a chi assuma betabloccanti (incompatibili con l’insulina che deve essere somministrata in caso di anafilassi), ai diabetici che dipendano da iniezioni di insulina, alle donne incinte, nel caso di malattie infettive acute o croniche che richiedano un grosso impegno del sistema immunitario, per evitare di stimolarlo ulteriormente.
Questo metodo disturba temporaneamente la vita dell’alveare perché le api rilasciano il feromone d’allarme e diventano aggressive.
Rispetto al veleno mantenuto puro nella sacca dell’ape, il veleno così estratto, che prende il nome di “apitossina” diventa più instabile e perde alcune delle sue componenti volatili (gli esteri, il cui valore terapeutico è antispasmodico, calmante, tonico, antiaritmico).
E’ diffusa anche l’applicazione dell’apipuntura in collegamento con l’agopuntura della Medicina Tradizionale Cinese.
La Prof.ssa Povlina Pochinkova (Bulgaria) ha introdotto un’applicazione del veleno d’ape attraverso gli ultrasuoni, la cui elevata energia acustica permette l’introduzione attraverso la pelle di varie sostanze.
Il veleno d’ape è parte di preparati omeopatici.
Per approfondire
Libri reperibili in Italiano:
Bodog Beck: Apiterapia, Nuova Ipsa Editore, 1999
Umberto Nardi: Apiterapia, ed. Aporie 1992
Federico Grosso: Apipuntura, Edizioni TIP.LE.CO, 2001
Paolo Pigozzi: Apipuntura e Apiterapia, Ed. La Casa Verde 1996
In lingua inglese, francese e spagnola è disponibile un CD realizzato a cura della Commissione d’Apiterapia di Apimondia, www.ap-ar.com, “Trattato di Apiterapia”
In lingua inglese:
Joseph Broadman: Bee Venom, the natural curative for arthritis and rheumatism, Health Resources Pr Inc; Revised edition (June 1997)
Charles Mraz: Health and the Honeybee, Queen City Publications (February 1995)
Fred Malone: Bees don’t get arthritis, Academy Books; 2 edition (December 1989)
In francese:
H.A. Porsin: Contribution Contribution à l’etude du venin d’abeilles et l’apicothérapie, IMP. LANGLOIS (1 janvier 1939)