A 10 anni dalla scomparsa di Onelio Ruini
La galassia d’energie, organizzazioni, umanità, che si riconosce nell’U.N.A.API., L’A.A.P.I., il CONAPI, la Redazione di L’Apis, in occasione della ricorrenza della scomparsa di Onelio Ruini ne propongono un suo ricordo sia a quanti ebbero modo di conoscerlo e stimarlo sia a coloro che, invece, non ne ebbero…
…l’occasione ma che possono, oggi, apprezzare ed avvalersi di tutto ciò che con la sua forte tempra, spinta ed umano calore ha saputo costruire per l’intero comparto apistico.
Con tutto lo struggimento di una mancanza che ancora ci brucia dentro vi proponiamo la lettura del saluto che, in nome di noi tutti, gli fu tributato in occasione del funerale.
Francesco Panella
COMMEMORAZIONE DEL PRESIDENTE ONELIO RUINI TENUTA DA SISTO BELLI
Ho conosciuto Onelio quindici anni fa, qui a Reggio Emilia, portatovi da un altro grande dell’apicoltura italiana, il Maestro trentino Abramo Andreatta. Or sono due anni, abbiamo dato l’estremo saluto al Maestro Abramo, che da quell’incontro fu acclamato Presidente onorario della nostra Unione.
Noi che dobbiamo raccogliere l’eredità di queste persone, ci sentiamo e siamo piccoli pigmei di fronte alla loro statura morale. Non è una divagazione inutile ricordare l’amicizia e la reciproca stima che legarono in vita Onelio con il Maestro Andreatta.
Per loro, come per tanti altri, l’amore per l’ape aveva creato quel rapporto di immediata simpatia, quella subitanea trasmissione di sentimenti e di idee, quella franchezza espressiva che faceva cadere ogni riserva, ogni tributanza, a volte sentimenti naturali nei rapporti interpersonali. L’esperienza di entrambi, alla guida della rispettiva organizzazione provinciale, li aveva proiettati nelle problematiche nazionali dell’apicoltura italiana.
Voleva dire e continua a significare il confrontarsi con la grande e multiforme realtà apistica italiana che, per ragioni geografiche, climatiche e umane rendeva e tuttora mantiene difficili i rapporti, le connessioni e gli scambi culturali tra apicoltori grandi e piccoli di ogni regione.
L’ape unisce, l’interesse divide. Onelio si è trovato automaticamente dalla parte in cui operava e lottava Andreatta. Qui a Reggio il 31 luglio 1977 convennero un po’ da tutta Italia persone che credevano in questi due uomini. E dal quel giorno prese il via quell’esperienza a volte esaltante, a volte difficile, sempre faticosa, che per il raggiungimento degli ideali unitari ci ha visto insieme per quindici anni. Quindici anni che valgono una vita, la vita di Onelio Ruini a cui oggi tributiamo con sincero affetto fraterno l’onore dovuto a chi ha sopportato e subito sacrifici e umiliazioni, per l’affermazione dei propri ideali.
È l’estremo saluto, come si usa dire, ma non è la fine di tutto. Non omnis moriar, scriveva convinto il grande poeta latino Ovidio, sapendo che di lui avrebbero parlato nei secoli e nei millenni le sue opere. Non tutto di me morirà, può dire Onelio a mezzo nostro, oggi che il suo corpo giace immobile, destinato alla consunzione.
Siamo uomini sì di corpo, ma abbiamo – unici esseri sulla terra – un’anima. Quest’anima è anche lo spirito dell’intelletto che ci ha guidato in vita nelle nostre scelte. E Onelio traeva dal suo intelletto gli stimoli per il suo operare.
Non omnis moriar. Di noi resta, dopo la nostra morte, quello che abbiamo dato per gli altri. E Onelio è stato uno che non ha mai badato solo a se stesso. Lui soldato, fedele servitore di una patria allo sbando, in una guerra voluta da pochi, lui ebbe sempre un atteggiamento di riguardo per gli altri, per gli umili, per i soccombenti.
Onelio è stato bravo operaio di alta specializzazione. Il buon nome della sua terra emiliana e quello dell’Italia hanno viaggiato nel mondo portati dall’opera anche delle sue mani e del suo cuore. Artigiano non comune è colui che trasmette un po’ della propria personalità nell’opera che sta forgiando. E artigiano – non operaio o semplice lavorante – artigiano come colui che sviluppa un’arte, è stato Onelio nei quaranta anni vissuti nel caseificio.
Tanti da non poterne più, ma non per la fatica fisica. Onelio lavorava con amore e con profusione di intelletto perché dalla materia viva che altri avevano prodotto, nascesse un’opera destinata a durare lo spazio necessario per rendere e mantenere alto il nome di una contrada, di un caseificio, di una regione. L’ape unisce, l’interesse divide. Avendo avuto la fortuna e la ventura di ricevere dal padre il talento di alcune famiglie di api, Onelio ha curato nei quaranta anni di lavoro dipendente il sogno dell’indipendenza, della libertà di stare in proprio, che non è mai libertà assoluta: non lo può essere! Nè lo può essere per il principio Kantiano che oggi la società intera deve riscoprire.
Per Onelio il desiderio di libertà era vocazione al lavoro, lavoro duro, continuo, fruttifero. Era il piacere di essere creativi in quella sintesi naturale mirabile che è il mondo dell’ape: un tassello perfetto di una natura quasi perfetta. Un mondo ancora molto misterioso che pure cede a piccoli sprazzi verità e tesori nascosti ai più.
Di questo mondo Onelio, ci confidava, sentiva il bisogno fisico. Tutti i problemi, tutti i dispiaceri, tutte le amarezze svanivano e si allontanavano rimpicciolendo, durante le ore trascorse con le sue api. Anche recentemente, già provato dalla malattia che lui sperava di contrastare, non vedeva l’ora di uscire in campagna, di aprire una cassa, di lasciar parlare loro, le api, al suo orecchio e ai suoi occhi.
L’arnia e le api – diceva – sono come un libro che si apre e ogni volta riserva qualche cosa di nuovo a chi lo sa leggere. Grande verità che è percepita solo da chi apre quel libro con umiltà e con la predisposizione a imparare, non a dominare; a servire, non a servirsi.
L’ape unisce, sono gli uomini che dividono e si contrappongono per interessi personali: ripeteva Onelio. Egli avrebbe potuto, una volta in quiescenza, dedicarsi solo alle api e curare solo i suoi interessi. In fondo alla società aveva già dato un notevole tributo. Ma il suo spirito nutrito dall’altruismo lo sospingeva fuori dal limitato orto dell’interesse personale. Lui aveva imparato a leggere il libro dell’arnia, ha sempre provato desiderio di condividere, di far partecipare agli altri le ricche e giornaliere esperienze vissute con le api e per le api.
Questi insetti, felici espressioni del creato, non sono mai un problema: loro sanno vivere per se stesse e sanno anche sopravvivere senza l’uomo. Il vero problema – diceva allora Onelio – sono gli apicoltori con i loro personali problemi aggiunti a quelli della categoria e di una società abbastanza sorda e per lo più insensibile verso il settore primario.
La storia dell’agricoltura italiana è storia anche dell’apicoltura, piccolo pezzo insostituibile di quel grande meccanismo produttivo che è tutta l’agricoltura italiana. L’ape – suo malgrado – si trovò relegata a un ruolo quasi residuale, allorché tecnologia, mezzi finanziari e una politica un po’ in sordina fecero fare quel balzo di sviluppo che contribuì alla nascita della nuova Italia. Ruini come tanti apicoltori italiani prima di lui e con lui, soffri per questa negligenza del pubblico potere, della cultura e dell’informazione verso l’ape e il suo mondo.
Di fronte all’inazione, al comodo fatalismo che accompagna spesso i passaggi cruciali della nostra Italia, Ruini volle reagire per cercare di smuovere un mondo politico accidioso verso l’ape, per suscitare entusiasmi, nel mondo della cultura e dell’informazione, per riscattare al vero ruolo imprenditoriale una categoria, quella degli apicoltori, troppo divisi, troppo lontani tra loro, troppo paurosi del successo del vicino. Una categoria mancante di organizzazioni rappresentative capillari, assidue, disinteressate almeno quanto basta per non restare ancorati allo schema misero delle tessere.
Perché l’Italia è varia e se qui a Reggio, se qui in Emilia Romagna e in altre felici contrade del Nord e del centro l’apicoltura poteva svolgere un ruolo tutto sommato, non di Cenerentola, in altre regioni la realtà era proprio triste e, in gran parte, continua ad esserlo.
Lo slancio di Ruini quando fummo spinti dalle circostanze a costituire l’U.N.A.API. con il Maestro Andreatta, con Astorre Girotti e con pochi altri volenterosi, fu di un interesse per il riscatto di una categoria che aveva atteso (e attende) di partecipare con uguale dignità e rispetto alla vita organizzativa del settore. La storia dell’U.N.A.API. è la storia dell’esperienza intensa, totalizzante del caro amico Onelio, alla guida dell’Unione per oltre undici anni dalla sua costituzione.
Cari amici, cari compagni! Questo che ho cercato di illustrare con le mie povere espressioni è l’amico Onelio Ruini a cui non hanno mai mancato le doti sanguigne della sua terra. Ma insieme a queste caratteristiche e ad una encomiabile retta coscienza Onelio possedeva la grande virtù cristiana dell’umiltà che gli faceva dire, e ripetere con sincerità e convinzione: “sono l’uomo sbagliato e desidero che altri prenda il mio posto”.
Caro Onelio sei stato l’uomo adatto al posto giusto: con la tua grande umanità, con la tua saggezza che non è frutto di cultura, ma naturale dono di Dio, hai saputo guidare l’Unione nei difficili meandri della politica e della burocrazia. Hai insegnato a noi che per fare il vero progresso dell’apicoltura l’Unione deve rivendicare UNA POLITICA DI SETTORE. Hai seminato molto. Le lungaggini burocratiche e le incertezze politiche ti hanno inflitto l’ultima amarezza nel non veder compiuto il riconoscimento ufficiale dell’unione. Quello che saremo e quello che riusciremo a fare dopo di te sarà la più bella memoria di te. Sarai ancora vivo in mezzo agli apicoltori italiani.
La terra ti sia leggera e il Dio in cui molti di noi credono, il Dio che ha mandato suo Figlio, Gesù Cristo, sulla terra per tutti gli uomini abbia anche per te comprensione e misericordia.
Rio Saliceto (R.E.) – 7/11/92
Sisto Belli – vicepresidente U.N.A.API.
CIAO ONELIO
La malattia lo ha colto improvvisa, ma non impreparato. Dapprima minandogli la forza, poi con il dolore.
Eppure durante questi mesi non è riuscita nemmeno una volta a divenire priorità nella vita di Onelio, sempre subordinata al lavoro nelle api, agli impegni in Associazione ed a quelli che si impongono ad un nonno felice.
Onelio Ruini con le api sapeva farci davvero!
Non solo perché era in grado di amministrare non uno ma 500 alveari, facendogli percorrere centinaia di chilometri da Reggio alle Prealpi; non solo perché era in grado di realizzare quel prezioso equilibrio fra investimenti, lavoro e profitto, così importante per ogni azienda; non solo per l’enorme considerazione e rispetto che riservava al miele, il suo miele, risultato di tanti sacrifici ma anche di una pratica, di una cultura apistica di altissimo livello; ma soprattutto perché era riuscito con una passione fortissima che a tutti comunicava, ad “entrare in sintonia” con il mondo delle api, ad “interpretarne” il costume. Naturalmente più delle api gli interessavano gli uomini.
Il suo obiettivo dichiarato era il conseguimento di una grande e forte associazione di uomini (apicoltori) in grado di raccogliere e unificare le differenti posizioni che in questo mestiere sono presenti, capace di esercitare un peso rilevante nei riguardi del “politico”, con la consapevolezza di poter rivendicare dei diritti poiché si attiene a dei doveri. Uno status. Un riconoscimento per un settore ancora poco considerato ma che esiste e rivendica la propria identità. Con dignità. Niente di meno del Potere Politico. Non certo un qualche finanziamento od un intervento straordinario magari “a pioggia”. Ma un posto per l’apicoltura – e per gli apicoltori – nell’intero assetto giurisdizionale (agricolo, sanitario, economico). Conobbi – conoscemmo – Onelio Ruini nella seconda metà degli anni settanta. A molti di noi allora giovani che pervenivano da strade diverse – non poi tanto diverse – a questo mestiere, pareva di essere finiti in un museo. L’apicoltura in Italia pareva custodita da una società segreta impenetrabile. Il sodalizio con Onelio fu immediato.
Non solo lui insegnò il lavoro a molti di noi – e ci sono voluti anni – ma si determinò fin da subito quel tipo di intesa, di legame che unisce coloro che si scoprono partecipanti allo stesso progetto, architetti della stessa costruzione.
Nonostante ci appartenessero tutti i fenotipi propri degli anni `70 con Onelio il rapporto è stato sempre paritario, diretto, intenso. Via Cà de Frati a Rio Saliceto è stata per anni il crocevia dell’associazionismo apistico italiano ed europeo. L’ospitalità di Onelio e della moglie Carmen sempre offerta a cuore aperto ha ristorato più di uno stomaco, incoraggiato più di una generazione.
Ciao Onelio, con affetto.
7/11/92, Lucio Cavazzoni – presidente CO.NAPI.
Una Vita per l’apicoltura
Onelio nasce il 16 ottobre 1923, terzo di sette figli di una famiglia di braccianti. L’infanzia e la prima adolescenza trascorrono in uno stato di dignitosa povertà aggravata nel ’36 dall’emigrazione del padre in Eritrea e della sua prigionia, protrattasi fino al ’46, dopo l’occupazione della colonia da parte degli Inglesi.
A 15 anni inizia il suo apprendistato in caseificio; la scelta di questa professione fu stimolata dalla volontà di non essere uno strumento di lavoro (se avessi fatto il bracciante o l’operaio mi sarei sentito come un badile: fai questo, fai quello e io avrei solo dovuto eseguire senza poter decidere nulla) ma di potersi gestire ed essere, almeno in parte, padrone di se stesso.
A17 anni, assieme al fratello, sostituisce un casaro richiamato per lo scoppio della guerra.
A sua volta, nel ’42, viene arruolato e, dopo un periodo di addestramento in provincia di Varese, viene inviato in Sardegna, nella zona di Macomer. Da lì, a seguito di una grave infezione di malaria, viene trasferito a Napoli dove rimane fino al congedo nel giugno ’46.
Al ritorno a casa riprende a lavorare in caseificio e nel febbraio ’47 viene assunto come capo casaro nella Latteria Sociale Cà de’ Frati S.Pietro, dove rimarrà fino al febbraio ’77 al raggiungimento della pensione.
Nei trent’anni della sua attività di casaro ebbe modo di dimostrare tutte le sue capacità, oltre quella puramente tecnica, riuscendo ad appianare forti contrasti presenti tra i soci della cooperativa e guadagnandosi la stima di tanti suoi colleghi venendo più volte chiamato a far parte della commissione sindacale per il rinnovo del contratto collettivo di lavoro.
I rapporti col Consorzio di tutela del Formaggio Parmigiano Reggiano, invece, non furono idilliaci.
Era fortemente critico sull’attività del Consorzio in quegli anni, sia dal punto amministrativo che tecnico; avanzava forti critiche su come non veniva tutelata a sufficienza la tipicità e la qualità del nostro formaggio e suggeriva degli interventi che sarebbe contento, oggi, di vedere come perno dell’attività del Consorzio.
Proprio per questa differenza di vedute negli anni ’70 rifiutò una medaglia d’oro alla carriera che il Consorzio gli voleva conferire.
Con l’assunzione come casaro Onelio potè realizzare un altro dei suoi desideri: potersi dedicare personalmente a quell’unico alveare che era rimasto nel patrimonio familiare.
Come tante famiglie contadine, fino alla fine della seconda guerra mondiale, anche i Ruini avevano un certo numero di alveari che seguivano con professionalità tanto da essere tra i primi, agli inizi del ‘900 a passare dai bugni alle arnie razionali. Nei difficili anni del primo dopoguerra questo patrimonio era andato disperso ma Onelio, pur non avendo mai potuto seguire le api direttamente, ardeva dal desiderio di “metterci direttamente le mani”.
Sotto la guida di uno zio acquisito apprese i primi rudimenti dell’apicoltura e da lì spiccò il volo.
Prima 3 poi 5, 10, 30… sempre cercando contatti con i più esperti e cercando di capire sempre più le api.
Man mano che cresceva l’esperienza, e si avvicinava l’età della pensione, non si accontentò più del solito tran tran dell’apicoltura stanziale e, stimolato dal contatto con gli altri apicoltori dell’allora Consorzio apistico e dalla partecipazione a vari convegni e incontri di apicoltori, cominciò ad accarezzare l’idea del nomadismo e di una maggiore professionalizzazione dell’apicoltura reggiana che, all’avanguardia negli anni 20-30, si era poi involuta non progredendo in senso professionale come era avvenuto in province limitrofe, ad esempio Modena e Bologna.
Nel ’72, assieme ad altri tre colleghi, iniziò a fare nomadismo sulle prealpi, stimolando e invogliando altri apicoltori della provincia a fare altrettanto.
Con il raggiungimento della pensione e col maggior tempo a disposizione, la sua voglia di svecchiare e rinnovare il settore, era già nel consiglio del Consorzio, prese nuova linfa e il tentativo di rinnovare dall’interno la FAI ebbe nuovo slancio.
Il 31 luglio del ’77 organizzò a Reggio un convegno delle organizzazioni apistiche che pose le basi per un confronto organico con la dirigenza della FAI per farla evolvere in senso democratico e professionale e per far sì che operasse per una politica di settore adeguata alle nuove esigenze dell’apicoltura.
Quel tentativo non ebbe risultati positivi e nel 1981 venne costituita l’ UNAAPI.
Nel suo nuovo ruolo di dirigente nazionale ebbe modo di presentare ai vari livelli una faccia diversa dell’apicoltura, un settore che doveva crescere, professionalizzarsi ed essere tenuto in maggior conto dalle pubbliche amministrazioni.
Gli pesava la sua cultura limitata (Tutti ‘sti dottori e avvocati mi fanno venir caldo…) ma la forza e la convinzione nelle proprie idee emergevano.
Nonostante il suo carattere spigoloso divenne il punto di riferimento di tanti che credevano in un’apicoltura nuova, rinnovata, professionalizzata.
Un gruppo di ragazzi che aveva fondato una cooperativa apistica giovanile lo entusiasmò: da quell’incontro e dalle lunghe e accalorate discussioni e confronti di idee, e con l’apporto di tanti altri, sarebbe nato il CONAPI.
Anche l’ associazione professionisti, l’ AAPI, lo ebbe tra i referenti, sebbene da posizioni critiche.
Tanti, allora giovani apicoltori, videro in lui un maestro. Non negò mai un insegnamento, un consiglio, uno stimolo, convinto che solo partendo dall’esperienza già accumulata e condivisa fosse possibile progredire.
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