La varietà planetaria dei mieli
Una delle possibili occasioni per vedere confluire sullo stesso tavolo una varietà di mieli planetaria è, dal 2004 ogni due anni, Terra Madre, il grande raduno, a Torino, di produttori di cibo provenienti da tutti gli angoli del pianeta patrocinato da Slowfood. Nel corso delle varie edizioni di Terra Madre si è cominciata a conoscere e incontrare una comunità internazionale di produttori di miele. I mieli portati dai delegati internazionali venivano offerti in assaggio all’”Honey Bar”, un’iniziativa dell’Associazione Produttori Miele del Piemonte; ma di quella varietà, così grande da comprendere prodotti che secondo il gusto di alcuni, e persino secondo la normativa internazionale, sarebbe stato difficile chiamare miele, non ci si era confrontati apertamente, tra produttori, prima del 2012. Durante questa edizione abbiamo chiesto, a ognuno che veniva coi suoi campioni, di raccontarci la storia del suo miele: in che ambiente naturale, all’interno di quale cultura, con che tecniche, con che tipo di api lo aveva prodotto? E come ce lo voleva presentare:semplicemente miele, o miele di una sorgente botanica precisa, o miele di un ambiente naturale unico, o miele di un certo gruppo etnico con la sua cultura a volte minacciata, o miele di un tipo d’ape in particolare? E come si faceva, dalle sue parti, a giudicare se un miele era buono o no? L’ultimo degli incontri di Torino ha dunque offerto la possibilità di confrontare nella loro relatività gusti e culture, ma anche legislazioni e criteri commerciali.
Non sempre è facile fare paragoni
Quanto è possibile paragonare tra loro questi mieli? Ed è possibile giudicarli semplicemente col nostro metro? Noi italiani veniamo da una cultura che, partendo dal concetto generico di “miele”, ha cominciato a vedere svilupparsi, nella prima parte del ‘900, una distinzione in miele chiaro e miele scuro, dove il miele scuro era spesso imbarazzante e non gradito, difficile per l’apicoltore da vendere, se non nei luoghi di produzione dove poteva essere familiare: ha richiesto un grosso sforzo culturale imparare che il miele di castagno o la melata possono anche essere molto gradevoli. E’ solo negli anni ‘80 che si è sviluppato lo studio dei mieli uniflorali e la possibilità di dichiararne, su basi condivise e documentabili, ’origine botanica. Parallelamente, era iniziata la loro valorizzazione a livello commerciale soprattutto da parte di alcuni pionieri quali il lombardo Porrini, l’emiliano Piana, il toscano Vangelisti; finché, oggi, possiamo permetterci il lusso di pensare che un miele di qualità può non essere necessariamente uniflorale, ma può essere valorizzato, per esempio, anche su base territoriale, utilizzando il concetto di “terroir” in modo simile a come si fa per il vino. Ma che sia su base uniflorale o territoriale, da noi il miele tende a comunque a essere recepito nel suo legame con delle piante, dei fiori specifici, e con l’ambiente che di queste piante e fiori si caratterizza. Non è un prodotto astratto, generico, non è il “miele del vasetto”. Non è nemmeno più medicina, ma è vissuto sempre più come alimento, frutto della terra e del lavoro dell’ape.
Il contesto produttivo italiano
In Italia gli apicoltori utilizzano per lo più un modello di arnia, la “Dadant Blatt”, concepito per creare la massima separazione di ruoli tra nido (la parte dell’alveare dove la regina depone le uova e le larve si sviluppano fino a diventare api adulte) e melario (riservato esclusivamente allo stoccaggio del miele). Questa separazione si è perfezionata con l’uso degli “escludi-regina”, griglie che impediscono all’ape regina (ma non alle api) di accedere allo spazio del melario, e quindi di deporvi le uova, evitando così la compresenza di larve, residui del loro sviluppo e polline (l’alimento proteico che determina quello sviluppo) col miele. Le analisi melissopalinologiche, che individuano le percentuali di residui di pollini nel miele e consentono di caratterizzarne l’origine botanica, sono legate a questo modo di gestire le api: sono cioè analisi di mieli immagazzinati dalle api con un minimo contatto con altre sostanze dell’alveare. In Italia, inoltre, l’apicoltore utilizza generalmente api docili, che non richiedono l’uso eccessivo di fumo per attenuarne l’aggressività.
E se usciamo da questo quadro?
Quando sconfiniamo da questo quadro, non ci troviamo necessariamente di fronte agli stessi elementi. Prendiamo uno degli aspetti che ci colpiscono in molti mieli provenienti dall’Africa e dal Sudamerica: una frequente nota affumicata, sulla quale saremmo severissimi se la rilevassimo in un miele nostrano. Ricordiamo: per legge il miele non deve presentare odori e sapori estranei alla sua composizione. Cerchiamo di spiegarci questa nota affumicata col fatto che in Africa e in Sudamerica gli apicoltori lavorano con api aggressive, che esigono un notevole uso del fumo, oppure con arnie rustiche (quelle che da noi usavano fino a trenta-quaranta anni fa) che non hanno né melari né telaini asportabili e contengono un tutto unico in cui convivono strettamente covata, polline, miele. A chi fosse capitato di passare da “Fortnum & Mason” o “Whole Food”, due famosi grandi magazzini del cibo di qualità in centro di Londra, sarebbe stato possibile imbattersi in un miele che viene commercializzato con l’etichetta “Tropical Forest”, e che viene prodotto da 6700 apicoltori dello Zambia che usano alveari in corteccia. David Wainwright, l’ inglese che ha creato la rete di raccolta e di commercializzazione cercando di adeguare la qualità del prodotto a standard occidentali, prende atto dell’intenso sapore affumicato del miele, che per questo aspetto non si conforma al tipico millefiori delle nostre aree, ma che ostituisce secondo lui un carattere distintivo del miele zambiano, e contribuisce addirittura a creare apprezzamento e riconoscimento da parte dei clienti: “spesso si sente dire che quel sapore è dovuto alla somministrazione di un eccesso di fumo, ma basta pensarci un attimo per capire che è molto improbabile: il miele dovrebbe assorbire il sapore di fumo davvero velocemente per assumere quel sapore nei 10-15 minuti in cui viene estratto dall’alveare”. Anche questa specifica affermazione può essere vera (esistono infatti mieli che hanno una naturale nota affumicata) gran parte dei mieli africani e sudamericani recano effettivamente traccia di un uso robusto del fumo.
Un altro elemento comune a molti mieli esotici è il sapore di frutta macerata, o di frutta tropicale, o di marmellata un po’ acida. Spesso, insieme a un’alta umidità denunciata dallo stato particolarmente fluido, danno l’impressione di un miele fermentato. In realtà sono in genere prodotti stabili, perché la fermentazione si arresta in condizione acida, cioè funziona, nella conservazione del miele, un meccanismo diverso. Se stessimo valutando un miele nostrano, sicuramente storceremmo il naso per qualcosa che è al di fuori dai nostri schemi abituali.
Ma anche dal punto di vista di un melissopalinologo, molti di questi mieli non sono riconducibili al nostro standard. E’ molto difficile infatti determinare l’origine botanica in mieli prodotti con la pressatura dei favi, perché appaiono sovraccarichi di polline, polline prodotto durante tutto l’anno e non solo riconducibile al miele estratto in un determinato momento. E questo, in minor misura, può capitare anche con mieli ottenuti sì, con arnie moderne, ma dove non è staat prevista una distinzione netta di funzioni tra nido e melario. Questo può accadere con l’ arnia americana Langstroth, per la sua l’intercambiabilità tra parte nido e parte melario, o con l’arnia Layens, spesso usata in Spagna, dove il miele viene estratto da telaini contenuti nello spazio del nido. Coerentemente, in Spagna un miele può essere dichiarato uniflorale semplicemente in base alla prevalenza pollinica.
Si capisce che non in tutti i paesi la denominazione uniflorale ha assunto l’importanza che ha da noi, o che perlomeno non ha la stessa importanza l’attendibilità della sua certificazione pollinica. In molti paesi del mondo il miele è ancora soprattutto miele, anche quando comunque si seguano le naturali differenziazioni per valorizzarlo meglio. In molti paesi poveri il miele è ancora utilizzato come una medicina, oppure come alimento di base in un’economia essenziale, non collegato alla gastronomia e allo sviluppo del gusto sull’onda del benessere. Anche in culture molto lontane dalla nostra il miele può comunque essere presentato nella sua relazione con un territorio particolare, a volte come prodotto di un tipo d’ape diversa dalla nostra, a volte secondo un metodo di raccolta diverso dal nostro, a volte in relazione a una tradizione indigena, magari di una comunità i cui valori rischiano di essere schiacciati dalla globalizzazione. In alcuni casi il miele è prodotto in quantità adeguate solo a un mercato locale, o di poco eccedenti; in qualche caso è alla ricerca di un po’ più di mercato per aiutare a sostentare delle popolazioni povere.